Daniel Canzian, chef del suo Ristorante ‘Daniel‘ nel cuore di Brera a Milano, storico executive chef del gruppo Gualtiero Marchesi e autore della cucina italiana contemporanea, ci racconta perché è così orgoglioso di essere italiano, come crede che il mondo cambierà dopo la pandemia Covid-19 e perché essere fedele al suo DNA e ai suoi valori è il segreto del suo successo.
Il mondo intero è coinvolto da questa pandemia globale. Prima di tutto, che messaggio sente di dare ai suoi clienti e soprattutto ai suoi colleghi?
Manteniamo la calma e partiamo dal presupposto che il buon senso è la cosa più importante che deve emergere da tutta questa situazione
Si dice che dietro ogni problema ci sia sempre un’opportunità; questa pausa forzata non è facile da affrontare ma potrebbe averle anche dato modo di riscoprire il valore del tempo e l’occasione di poter studiare e sperimentare con maggiore calma. Cosa, di positivo, pensa uscirà da questa situazione?
Penso stia emergendo una sorta di “ridimensionamento etico generale” e le persone abbiano scoperto che i cuochi non salvano vite umane. Questo è importantissimo. Sarà necessario avere più cura verso noi stessi e tutto quello che ci circonda, soprattutto la natura. Personalmente ho compreso che la frenesia alla quale eravamo abituati giova poco alla salute e alla creatività. Con gioia ho riscoperto che la mia passione più grande è e rimarrà cucinare, prima di tutto per me stesso. Ritengo sia un gesto di amore per le materie prime e per il fruitore finale.
Come si sta preparando alla ripresa dopo i dolorosi sacrifici e lo stop forzato in questo periodo di emergenza?
Con un’idea tutta nuova di ristorazione che sto già sviluppando e ponendo in essere. Ci vorrà ancora un po’ di tempo ma i frutti si vedono già. Diciamo che sarà completa entro settembre.
L’emergenza Covid-19 sta riscrivendo le regole dell’enogastronomia. Come immagina il futuro della ristorazione quando tutto sarà finito?
Mi auguro che il futuro della ristorazione sia più “nutrizionalmente ragionato” e meno compromesso dalle pretese della gola che ci hanno portato all’alterazione del gusto. Oggi la natura sembra un ricordo lontano, non la madre di tutte le cose, ma semplicemente qualcosa da poter manipolare a discapito del gusto.
Per effetto della globalizzazione (che ha soppresso i gusti tradizionali) oggi mangiamo tutti in modo indifferenziato e accettiamo di farlo in piedi, per strada, stretti e ammassati. Tutto questo cambierà, ma non grazie a divisori o mascherine bensì attraverso il buon senso. La cucina locale, quella della tradizione, sta diventando un lusso per pochi. Con l’uniformità dei cibi abbiamo perso il valore della tradizione e quindi la memoria della nostra storia.
Qualcuno sostiene che il “food delivery” rappresenti un valido supporto ai ristoratori… la teoria può essere applicata anche alla cucina d’autore?
Si ne sono fermamente convinto. Il food delivery va pensato bene, se ragionato con intelligenza può aiutare.
Secondo lei quali saranno i trends che influenzeranno la ristorazione del futuro?
Sono totalmente convinto, come dico già da anni, che il futuro sarà la regionalizzazione italiana che passerà attraverso la semplicità e sarà valorizzata dall’ospitalità.
Se fosse l’ispettore di una guida enogastronomica dopo il coronavirus, quali criteri di valutazione prenderebbe in considerazione?
Gli stessi di prima con l’aggiunta del buon senso.
Il fine-dining ritornerà o rinascerà?
Il fine dining penso sia la realtà del mondo ristorativo che subirà meno danni rispettando già molte regole che stanno oggi emergendo. In generale, ci sarà una forte richiesta di qualità a 360° (dal prodotto al servizio alla sicurezza della location). Certo, in un contesto di crisi economica alla quale ci stiamo avvicinando ovviamente non sarà facile nemmeno per questo segmento.
Parliamo di cose positive: qual è stata la sua ispirazione nel creare il suo attuale menu degustazione?
L’ho fatto non in funzione a ciò che volevo io bensì grazie ai suggerimenti dettati dal ciclo naturale delle materie prime. L’orto, il mese, il clima. A essi ho applicato una gestualità che ha sempre un grande valore, figlia dell’essere artigiani. Infine un pizzico di vena artistica che non fa mai male.
Ci racconti del suo piatto del cuore, il “signature dish” che più di tutti la identifica, cosa lo rende unico e se lo rivisiterebbe in futuro.
Ce ne sono tanti, sceglierne uno quasi vorrebbe dire far un torto ad altri. Ne racconterò uno che mi accompagna da quando è nato, nell’ottobre del 2013. Si tratta del “risotto al limone con sugo d’arrosto e liquirizia”. Un classico risotto al limone che posso preparare in tutte le stagioni grazie al limone in salamoia che prepariamo noi in ristorante. Il sugo d’arrosto c’è perché volevo dar risalto a una cosa che tutti amano, che la nonna faceva e che per strani motivi era stata dimenticata dalla ristorazione e mi fa molto piacere che oggi anche altri ristoranti lo inseriscano nei loro menù. È goloso, confortevole, rincuorante. Viene messo alla fine, a riso steso nel piatto, come per dare lustro all’opera. La liquirizia spolverata delicatamente e con moderazione, gli dona un tocco di genialità.
Sostenibilità, un argomento sempre più di tendenza ultimamente. Quale pensa sarà l’impatto post-Covid-19 sui ristoranti fine-dining in fatto di sostenibilità?
Le rispondo con una frase di mia creazione: la stagionalità è alla base della sostenibilità. Diciamo che se pre-coronavirus era una tendenza, ora e’ diventata un obbligo. Nuovamente mi auguro che il buon senso e non la “moda” porti tutti verso questa strada.
Il suo ristorante ha un posto speciale nel suo cuore; ci racconti alcuni momenti che ricorda ancora quando ha aperto e quali sono state le sue maggiori sfide quando ha iniziato.
Speciale perché posizionato in una delle zone più belle di Brera. Lo amo perché mi ha fatto nascere, piangere, soffrire e gioire. La sfida più grande (e lo è ancora) e stata la parte gestionale-imprenditoriale. Essa ti porta a “leggere” i piatti in maniera diversa, ti fa capire che saper cucinare e’ solo una piccola parte di questo grande mondo. Tornassi indietro prima di aprire un ristorante fare uno stage di due anni al fianco di un grande direttore-manager per apprenderne tutti i segreti.
Con la sua cucina, lei è interprete e testimonial di una filosofia che va oltre il semplice cibo. Ha creato un universo e un DNA potente e riconoscibile. Quali pensa siano i fondamentali del successo?
Penso di essere semplicemente riuscito a dare voce a ingredienti-ricette che erano state dimenticate, penso all’uovo in cereghin, alla faraona in tecia, al baccalà mantecato, alle seppie alla veneta.
Tutto si basa sulla cucina italiana perché io la amo profondamente. La CUCINA ITALIANA per me è un’identità plurale (cosi ho definito le diverse culture regionali gastronomiche italiane) derivata da un rapporto tra la tradizione (storia) e il territorio (geografia). La cucina italiana può trovare un senso soltanto in quanto ARTE, al pari dei luoghi dove essa è nata e vive. Pensate a Firenze, Siena, Venezia… il territorio italiano detiene il 70% del patrimonio storico-artistico mondiale.
Se ci fosse una cosa di sé stesso che vorrebbe cambiare quale sarebbe?
Ho molti difetti, anzi tantissimi, ma mi piaccio così
Qual è la sua frase o il suo motto preferito?
Avanti tutta!
Cosa ti mette di buon umore? Hai delle abitudini, degli hobby o dei rituali a cui ricorri per fare il pieno di positive vibes?
Bere dalla mia tazza verde prima del servizio.
Se non avesse fatto lo chef, che cosa le sarebbe piaciuto diventare?
Non ho mai pensato ad altro.
Come definirebbe il Made in Italy in tre parole?
Classe, eleganza, storia.
Ristorante
Daniel
Via Castelfidardo angolo via San Marco,
20121 Milano MI